Viaggio a Firenze, 1830 – 18

Firenze, 20 settembre 1830 (lunedì)

La sollecitudine, con cui vanno e vengono le nostre lettere, mi arreca meraviglia e piacere. Mercoledì passato voi mi avete scritto dalla Gazzera e io, sabato mattina, leggevo la vostra lettera sulla piazza del Granduca. 

Come farò io a rispondere alle cortesie di ricordanza e di buon augurio che codeste gentili persone mi hanno, per vostro mezzo, fatte sapere? Io mi raccomando a voi e voi, per far loro nota la mia riconoscenza e perché più la gradiscano, fatela loro ridire per quel mezzo, che fosse più acconcio! 

Quanto a miei amici e parenti, spero la gradiranno tanto più, quanto più direttamente da me viene. Anche al mio buon Francesco Giusti1 dite che io l’ebbi più volte in mente e che non ho poi rinunciato del tutto all’esecuzione di quel certo nostro piano, che egli ben sa. 

Povero don Beltrame2, io vi confesso schiettamente di aver sentita quella notizia con sommo mio dispiacere. Vedete un giovane intaccato nella reputazione. Un qualche piccolo fallo, non sono lontano dal credere che lo abbia commesso, ma tale da meritarsi un castigo così forte non posso persuadermene.

Io non so se sia concesso, a un qualunque superiore, punire dei piccoli errori con una tale pubblicità, da far sì che il mondo possa andare avanti con giudizi temerari e con supposizioni esagerate. Vi è un tipo di errori che conviene o usare una certa delicatezza nell’emendarli o non vederli e non pensare nemmeno che esistano, quando il castigo è di tale peso e scandalo e in realtà non è meritato dal colpevole. 

La prima legge dell’onestà è quella di non denigrare a nessun costo la reputazione altrui, quando uno scandalo emergente non lo richieda. Io me ne farei coscienza.

Benedetti codesti pazzi zelanti, che fanno tanto male al mondo, per voler ottener quel bene, che non esiste che in teoria, anche presso quelli che lo vorrebbero far praticare agli altri!

Facciamo un salto e da questi spiacevoli discorsi entriamo in un altro più piacevole: mettiamo il piede in Boboli. 

Ecco lì un bel Guardaportone, vestito tutto d’argento, quattro bei granatieroni Italiani e una cinquantina di allegri operai, che ad ogni ora benedicono il granduca, che paga loro bene la giornata e che fa fabbricare una suntuosa ala del palazzo Pitti. 

Qualunque sia il viale per cui si entri, una deliziosa ombra fa più ameno il sentiero che, per quei lunghissimi corridoi, scorre lungo colline e pendici, a mille rincontri di bivi e quadrivi.

Vi sono statue, recinti, boschetti, sedili, capanne rustiche, grotte di stalattiti, sontuose fontane, isole. Ma tutto, però, è figlio di quell’antica scuola, che aveva per guida l’arte e che ora la nuova, che a suo nume tiene la natura, ha detronizzata.

Un classico e un romantico, se avessero a percorrere assieme questo giardino, potrebbero venire a contesa. E in questo pericolo sarei caduto io con Pieri se fossi stato Romantico3. Passeggiavamo assieme e Pieri si meravigliava come io lodassi la magnifica vista, che da vari punti di quel luogo si domina, e non parlassi mai della delizia di quelle immense file di alberi, disposti in una severa e ordinata simmetria. 

I viali del Giardino di Boboli

Egli vi si deliziava e, quando mi fece vedere una certa isola, messa in mezzo di una gran vasca e composta tutta di enormi masse di marmo, scolpito con barocca architettura, si spazientì che io la trovassi maestosa e non deliziosa. 

Insomma il giardino di Boboli è uno di quei luoghi, che può recare meraviglia, ma non quel diletto che si desidera in un giardino. Tanto è vero questo, che il Granduca gli ha perso l’affetto. 

Il Giardino Torrigiani sì che è una bella cosa! Più bella di tutto è una magnifica e eccelsa torre gotica, fabbricata nel mezzo al giardino e donde (a comun detto) si vede Firenze nel miglior punto. Quando io la salii tramontava il sole. Vi lascio immaginare quale effetto mi facesse. 

Vi sono molti giochi di ogni specie, giostre, altalene, bilici e serragli di bestie, ma quello che più importa è che il giardino è tutto fatto di sempreverdi e ha una bella serra.

dal Diario di Mario Pieri

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  • Note
  • 1- Francesco Giusti del Giardino (1805-1881)
  • 2- Don Giovanni, o Giobatta, Beltrame fu rettore della chiesa di Gargagnago (Sant’Ambrogio di Valpolicella) dal 1838, nell’occasione Benassù Montanari gli dedicò un sonetto. Nel 1839 fu predicatore a Palermo, nel 1843-1844 a Venezia e a Trieste. Rimase sempre in corrispondenza con i Mosconi. Non è il celebre missionario don Giovanni Beltrame, che nel 1830 aveva solo sei anni.
  • 3- Quest’affermazione lascia dubbiosi: la sua preferenze per il giardino all’inglese Torrigiani, nonché la sua traduzione (vd. lettera 14) della poesia Darkness di Lord Byron, il cui argomento è la fine del mondo, dice che Giacomo Mosconi è un giovane figlio del suo tempo.

Archivio Mosconi (a cura di Franco Corsini)

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